Salvatore Vitino Giglio

La grande chiave entra nella toppa del catenaccio. E’ un po’ arrugginita, forse serve una spruzzata di lubrificante per sbloccarla. Ma Salvatore Vitino Giglio, meglio conosciuto come Vito, è felice di mostrare a me e Luca il suo mondo e sa come fare:

“Ci voli u verso!” e in un attimo la porta si apre.

Ogni Vitese che si rispetti, per potersi considerare tale, deve entrare almeno una volta nel suo laboratorio. Si tratta di una vecchia casa ubicata nel centro storico, un quartiere ormai quasi disabitato.

Varchiamo l’ingresso e lui chiude subito la porta a chiave alle nostre spalle, costringendoci a strizzare gli occhi per adattarci alla penombra. Io e Luca, che mi ha accompagnata preventivando che sarebbe stata una mattina particolarissima, ci guardiamo un po’ attoniti.

Vito, cogliendo l’incertezza nei nostri sguardi, esclama: “Non vi sto sequestrando, tranquilli! E’ che la luce del sole rovina l’atmosfera, quindi ho bisogno di tenere la porta chiusa”.

Quella stanzetta è stracolma! Siamo praticamente sovrastati da fotografie, calendari, immagini di volti e corpi quasi tutti femminili: è evidente che ne è affascinato.

C’è praticamente tutta la storia del paese di Vita in quella stanzetta angusta: volti di personaggi del passato e del presente. Luoghi che ormai non esistono più, perché devastati dal terremoto, che rimarranno per sempre impressi nella mente dei cittadini odierni e futuri, grazie anche a quelle immagini. A rendere il tutto ancor più surrealistico, tra un calendario, una foto del paese e volti più o meno conosciuti, si trova appesa qualche immaginetta sacra con un lumino acceso sotto: lì dentro si fondono letteralmente sacro e profano!

Vito, che indossa una giacca a quadri scozzese, con fare orgoglioso ci fa salire al piano superiore attraverso una scaletta stretta, facendoci entrare nel vivo del suo leggendario laboratorio: la parete alla nostra sinistra è coperta da un telo raffigurante una spiaggia, che scende a rullo dal tetto tramite un marchingegno ideato da lui. Dietro, altri teli colorati che, ci spiega, sono gli sfondi, che lui chiama “fondali”, utilizzati per le sue foto.

Sposta un po’ di roba, scusandosi per il “disordine creativo”, prende una scala a forbice in legno antica e la pone di fronte il telo. Sale e comincia a srotolare un altro “fondale”, quello che ritiene più adatto per l’idea che ha in mente questa mattina. Poi scende e recupera, da quella che a me sembra un mucchio di cianfrusaglie impolverate, un cappello, e me lo poggia sul capo.

Mi guarda e sorride: ha capito, nonostante la perplessità nei nostri sguardi, di aver appena trovato due modelli per il suo hobby preferito!

“Fermi… fermi così!” si reca nell’altra stanza e ritorna con una custodia contenente una bella fotocamera digitale.

Comincia a spiegarci il particolare meccanismo attraverso cui, quando avvicina l’occhio al mirino, automaticamente lo schermo l.c.d. sul fronte della fotocamera si spegne, e l’immagine passa attraverso di esso. Lui ne è affascinato, e quando lo spiega, come se si trattasse di una magia, riesce quasi ad emozionarci per la tenerezza con cui lo fa: “Una volta le macchine fotografiche non erano così!”.

Si avvicina a me, mi cinge le braccia e mi “posiziona” con un piede sullo sgabello di fronte al “fondale”: “Ecco, così! …No, aspè, ti sei mossa! Rimettiti in quella posizione… no, no… così… ecco, un po’ più in basso. La testa rivolta verso me”. Accende i faretti ai due lati dello scenario. “Allegria! Finché c’è fotografia c’è allegria!”. E sorridere a questo punto ci viene naturale. Ormai siamo in ballo: balliamo! Una serie di pose e travestimenti improbabili: “Piega leggermente la schiena. Tu, ragazzo, seduto così e tu, bella, siediti qui sulle sue ginocchia. Ora indossa questo foulard. Ho anche delle finte ali di farfalla, le vuoi indossare?”.

Trascorso un bel po’ di tempo a ridere e scattare foto, riceviamo una telefonata dai nostri colleghi, e ci rendiamo conto che si è fatto veramente tardi. “Caro Vito, è stato un vero piacere, ma adesso dobbiamo proprio andare, i ragazzi ci aspettano”.

Lui si intristisce: “No, dai, altri cinque minuti! Sono così contento quando posso scattare delle foto! Quando un giorno io non ci sarò più, le foto rimarranno, perché io le farò stampare e ve le porterò presto. E voi ricorderete questa bella giornata con un sorriso! Questo è il mio obiettivo: far sorridere le persone!”.

Vito, infatti, regala sempre le sue foto a tutti i suoi soggetti ed è una gran fortuna, perché purtroppo ormai la gente non stampa più i propri ricordi, che sono destinati a rimanere nel dimenticatoio.

Dopo qualche settimana fa lo stesso anche con noi: stampa circa una quarantina di foto e ce le regala tutte, rendendo il ricordo di quel momento così divertente, concreto e reale!

Non posso, quindi, che essere grata a questo fotografo d’eccezione!

Jeannette Tilotta