Ho sempre provato profonda ammirazione e grande rispetto per gli artisti.
Mi affascina la loro visione della vita, la capacità di cogliere determinati aspetti di essa e di tramutarli in qualcosa di diverso o di rappresentarli in maniera così cruda e reale, tanto da stupire la “gente comune” davanti all’evidenza.
L’abilità nel plasmare i colori, i materiali, le parole, la musica e addirittura l’urbanistica del paese di Vita, è la caratteristica che più mi fa apprezzare Pasquale Gruppuso.
Lo incontro, seduto al panificio con un quotidiano tra le mani, una piovosa mattina di ottobre.
Con il suo copricapo elegante sulla testa, è intento a leggere la Cronaca di Trapani. Solleva gli occhi vispi dal trafiletto che lo aveva impegnato fino a quel momento e mi riconosce: “Buongiorno, avvocato!”. Nonostante io sia ancora una praticante, mi chiama sempre così, fin dal nostro primo incontro. Il che mi lusinga.
“Cara, ti invito a leggere il giornale di oggi. Stendiamo un velo pietoso sull’assoluta mancanza di creatività e la scarsa conoscenza dei vocaboli italiani dell’autore. Ma vogliamo parlare almeno della base del giornalismo, le famose “Cinque W”? Dove sono finite?! Rileggo questo articolo da venti minuti e non ho ancora capito nulla!”.
Avvicina il giornale e con un dito mi indica quel fastidioso trafiletto. Lo leggo, rendendomi contro di quanto avesse ragione, e convengo: “Tutto ciò è inconcepibile: ma purtroppo al giorno d’oggi sono davvero pochi quelli che svolgono con passione la propria professione. Si fa il minimo sindacale e la nostra generazione ne piange e piangerà le conseguenze”.
Lui mi guarda affettuosamente, e con un sorriso mi dice: “La verità, cara Tilotta, è che di giornalisti ironici e bravi come tuo padre, non ne esistono più!”.
Colpita in pieno. Mi commuove e gliene sono grata. Ma per pudore non piango mai in pubblico riferendomi a questo delicato argomento: è un dolore troppo intimo e forte, per cui ringraziandolo bevo per distrarmi un sorso di succo di frutta dal bicchiere di Luca, il mio collega, che si trova lì con me ed incrocia il mio sguardo per rassicurarmi, riuscendoci.
Il Maestro comprende immediatamente ed esce dal taschino una busta, per dirigere la mia attenzione su un universo più piacevole a me tanto caro: l’arte. Si tratta di un invito ad una sua mostra.
I suoi dipinti sono un’esplosione di colori ed immagini introspettive, dai quali traspare un amore viscerale per la sua terra. E’ poesia tramutata in materia, pensiero evoluto in concretezza. Luce od oscurità, a seconda dello stato d’animo del momento, ma comunque, innegabilmente, vita. La rigidità delle linee, fusa con le morbide curve della sua anima artistica: emisfero destro e sinistro del cervello lavorano di pari passo, rendendolo mai banale.
Ma Pasquale Gruppuso è anche scrittore e poeta: gioca con i termini, li utilizza bene e con eleganza. E’ un appassionato di storia, tradizioni, ma soprattutto di sperimentazione architettonica, essendosi laureato in Architettura a Venezia, dopo aver frequentato il Liceo artistico di Palermo. Il che non è comune, per un ragazzo nato in un paesino rurale negli anni ‘940. E ad incorniciare il tutto, il fatto che per molti anni sia stato anche un insegnante è evidente dal modo stimolante in cui si approccia con i giovani.
Arriva suo figlio: un bel ragazzo con gli stessi occhi azzurri che vive fuori da molti anni. Pasquale, con il suo tipico cache-col al collo, mi invita a stringergli la mano e a continuare la conversazione con loro…
Jeannette Tilotta